“Il mio cinema o si ama o si odia”
S
ono passati poco più di vent’anni da quando al Festival di Cannes, prima di essere premiato per “Pulp Fiction”, Quentin Tarantino pronunciava queste parole.Eppure, per quanto lungimirante, neppure lui, passato dal Tennessee a Los Angeles, avrebbe potuto immaginare che in questi due decenni sarebbe stato amato incondizionatamente.
Ogni tanto fortunatamente succede. Specialmente quando sei un autodidatta geniale. Nessuno studio specifico. Solo passione per scrittura, sceneggiatura, attori e storie. I leitmotiv personali “non riesco a smettere di scrivere” e “non sono mai andato a una scuola di cinema, sono andato a vedere i film”, dicono già tutto.
Avesse fatto una trafila consueta, anziché il ragazzo del videonoleggio al Manhattan Beach Video Archives di Los Angeles, difficilmente avremmo visto i suoi capolavori. Perché quello che nelle sue opere viene chiamato citazionismo, non è altro che amore per il Cinema.
Una volta adattato “Una vita al massimo” e “Assassini nati” per Tony Scott e Oliver Stone, e aver realizzato come opera prima “Le Iene”(che strabilia al Sundance e diventa logicamente, subito un cult), chiunque si sarebbe imputtanito a girare fesserie alla “Men in black”.
Lui invece no. Lì comincia il mito.
Se oggi Bogdanovich (che prima di essere un collega, è soprattutto un grande critico) dice che sei il più influente della tua generazione, devi prendere e portare a casa. (1)
I due premi Oscar per un paio di sceneggiature, appena raccontano, la visionarietà epocale di un regista capace di soddisfare lo spettatore, nonostante l’industria. La passione del cinefilo non si compra.
Così come non serve spiegare la differenza tra plagio e citazione, scopiazzatura e omaggio.
“Il colpo della metropolitana” di Sargent (quello con Walter Matthau e il papà di Ben Stiller poliziotti) per “Le Iene”, vale il semisconosciuto “Requiem per un agente segreto” di Sollima. Con Waltz e la Kruger a fare Stewart Granger e Daniela Bianchi (la prima Bond Girl italiana) in “Inglourious Basterds”. (2)
Fernando Di Leo conta quanto John Ford, fotogramma per fotogramma. Tacendo del menzionatissimo Sergio Corbucci, l’artigiano che in Italia conoscono a stento gli addetti ai lavori.
I rimandi sono effettivamente infiniti e diversi. Elencarli tutti è quasi impossibile.
“City on fire” di Ringo Lam, “Django” e le casse da morto a spasso, “Bande à part” e la Nouvelle Vague, “I guerrieri della notte” di Hill, “Un bacio e una pistola” di Aldrich, “Psycho” di Hitchcock, “Colpo grosso al Jumbo Jet” di Ed Forsyth, persino i Flintstones e “Quarto potere” di Orson Welles.
“Lady Snowblood” di Toshiya Fujita, le lacrime di sangue del fulciano “Paura nella città dei morti viventi”, la suora sexy di Frankenheimer armata di siringa in “Black Sunday”, “L’ultimo combattimento di Chen” e la tuta gialla con la banda nera.
“Gli spietati” di Eastwood, Fritz Lang e “Metropolis”, “Via col vento”, Sergio Leone, “Il grande silenzio” con Trintignant e Klaus Kinski. Leonardo Di Caprio che muore tale e quale a Jack Palance, col fiore sanguinante al petto, manco gli avesse sparato Tony Musante vestito da pagliaccio.
E noi, novelli Mastroianni, sbirciamo il caschetto corvino di Barbara Steele ballare con Mario Pisu, elegante e appesantito. Senza nemmeno mettere in mezzo Uma Thurman e John Travolta.
Probabilmente una monografia non basterebbe a spiegare quanta vita è passata e passerà attraverso gli occhi di quest’autore incredibile.
Chissà cosa gli riserva il futuro. E chissà cosa riserverà al pubblico. Se si normalizzerà, dentro al solco dei direttori che hanno già dato, o al contrario ci sorprenderà nuovamente, alzando il tiro.
A sensazione propendo per la seconda.
Dopo averlo visto affermare i “feticci” Christoph Waltz, Tim Roth, Steve Buscemi, Uma Thurman, Michael Madsen, Samuel L. Jackson, e la stunt Zoë Bell,
rinnovare Brad Pitt, Bruce Willis, Robert De Niro, e Harvey Keitel,
ripescare John Travolta, Kurt Russell, Don Johnson, Pam Grier, Daryl Hannah, David Carradine, e Jennifer Jason Leigh, inventandosi oltretutto Mike Myers generale (col nome di Ed Fenech!) e Bo Svenson reverendo, mi aspetto ancora molto.
E c’entra poco o nulla la letteratura postmoderna o l’Avant-Pop della critica forbita. Vado a fiducia. Mi bastano le nozze d’argento dell’esordio e l’esegesi di “Like a virgin”. Vivere è godersi la bellezza aspettandone altra nuova.
Al proposito, un suo collega nato più lontano da Knoxville, in un racconto abbastanza riuscito, ha chiosato con queste parole:
“Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza.
E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.” (3)
Quentin Gambardella. Non suona affatto male.
(2) Cuchillo è andato via, addio a Sergio Sollima di Marco Giusti | 2 Luglio 2015 – Il Manifesto
(3) La grande bellezza (2013) – Paolo Sorrentino