“La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta”
Una vita tranquilla
(di Claudio Cupellini, Ita 2010)
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S
e mai vi capitasse di leggere un libro della Adelphi dalla copertina rossa intitolato “Morte della Pizia”, ci troverete questo assunto. E’ un breve racconto, parla di Grecia antica, profezie e casualità. Perché il destino, si sa, può avere traiettorie lucide e perverse.Il secondo film del regista padovano Claudio Cupellini (su un soggetto di Filippo Gravino, premio Solinas nel 2003) un richiamo al grande drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, in effetti lo fa.
Quando il passato ritorna, non c’è alcun presente che tenga.
Antonio De Martino, camorrista creduto morto e scappato in Germania da quindici anni, si è ricostruito una vita. Salvando se stesso e i suoi cari.
Adesso si fa chiamare Rosario, ha di nuovo una famiglia come quella che aveva a Napoli. Gestisce un hotel e un ristorante. Cucina pure.
L’unico a sapere il segreto è quel bambino rimasto nella sua città, Diego, il figlio di primo letto. Che nel frattempo è diventato un uomo di malavita com’era il padre.
La piega degli eventi, nel momento in cui i due si ricongiungono, diventa inevitabile.
Del resto, basta la scena iniziale per comprendere l’aria che tira. Quando il protagonista cambia espressione, intravedendo dalla vetrata dell’albergo un palleggio familiare. L’ambivalenza dei sentimenti sta tutta in un’occhiata.
La fissità dello sguardo perso nel vuoto a dissimulare piacere e timore, è un presagio.
Toni Servillo, all’ennesima imbarazzante prova di bravura, con una recitazione misurata (in tedesco, italiano e napoletano), fa il leone in gabbia.
Alterna disincanto e passione, scatti d’ira e savoir faire. Nel tentativo di far pace col senso di morte, che un nativo del Vesuvio porta inevitabilmente addosso.
L’affanno delle persone costrette a ricominciare col destino contro è affascinante.
Senso di morte, dunque. Gli alberi minati coi chiodi, i cinghiali colpiti col piombo, gli spari a un palmo di distanza. Ma anche senso di vita.
Quello dell’istinto di sopravvivere (“tengo paura di morire, pensavo ca nun me faceva niente e invece…”), contro tutti. E a discapito di chiunque.
Marco D’Amore è in parte. Non potrebbe non esserlo. Merita un’attenzione che prescinda dai successi della serie tv. L’inquietudine spontanea che emana, rende la precarietà dei tempi in cui viviamo.
Francesco Di Leva non ha respiro lungo, invece. Ma qui è perfetto. Ha la faccia da schiaffi e l’incoscienza degli scugnizzi fregati in partenza.
Il resto della vicenda si perde nella notte. Nelle autostrade e negli autogrill. Nei fatti successi veramente o immaginati. Duisburg vale Caserta o Corigliano Calabro.
Rimane il sorriso canuto del protagonista ad accompagnarci. L’atmosfera ferina di un mondo può lambire anche chi non gli appartiene.
Perché il dolore di tutti prima o poi investe anche la pelle degli altri. Gli avvenimenti disgraziati di cronaca nera lo suggeriscono, purtroppo, ogni giorno.
Al proposito, c’è un best seller di qualche decennio fa. Rammento parole dure abbastanza famose. Le ha recitate persino la Binoche per Louis Malle. Facevano così:
“Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere. (…) È la sopravvivenza che le rende tali. Perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (1)
(1) Il danno (1991) – Josephine Hart