“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire.”
Loro
(di Paolo Sorrentino, ITA/FRA 2018)
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C’
è uno scrittore argentino, Adolfo Bioy Casares, ispiratore di Resnais e grande amico di Borges, che una volta (nel ’69) ha raccontato di quanto la vecchiaia porti a una triste saggezza nell’accettare le proprie limitazioni.Il “Diario de la guerra del cerdo” (“Diario della guerra al maiale”), testo fantascientifico fino a un certo punto, non ammiccava all’avvicinarsi della morte. Rivelava il graduale senso di estraneità nei confronti della vita. Ecco perchè Vidal (il protagonista del romanzo) “pensò che vivere è distrarsi”.
Un mese fa, circa, è uscito il nuovo film di Paolo Sorrentino. Giovane “grande vecchio” del nostro Cinema contemporaneo. Per capirlo sul serio bisogna raggiungere la sua età effettiva, prima che anagrafica.
Intuirne la legittima ricchezza di stile.
“The Young Pope” ha inaugurato un nuovo linguaggio del regista Premio Oscar. Le due parti divise in tre ore complessive spiegano la soluzione di continuità visiva.
L’incipit infatti è lo stesso: Sergio Bruni. La napoletanità sfotte la vita. Il destino stesso, forse. Figurati pecorelle, televendite e Mike Bongiorno.
Eco l’aveva tratteggiata in bianco e nero, da lontano. “Rappresentare un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere, perchè chiunque si trova già al suo livello, non provoca complessi di inferiorità“. (1)
Neppure se metti i tacchi nascosti.
E allora vai di narice. Sniffalo il vento del Duemila.
Dalla non lo sapeva ancora immaginare. (2) Noi, nostro malgrado, concludiamo “che non è profumato, né maleodorante”. Uguale all’alito di nostro nonno. Sarà il detersivo della dentiera.
Sergio ha qualcosa di Mastroianni. Assieme al sorriso ebete di Alberto Sordi. Proprio bravo Riccardo Scamarcio (Nastro d’argento per il miglior attore non protagonista). Gli era capitato di partire facendo il culo alla gente (Ferrandino, prega per noi). Ma stavolta se scosti la mano dalla chiappa, mentre gli Stooges urlano “Down on the street”, la soluzione dei casini appare nitida. Basta un tattoo fatto alla buona.
Gli appalti delle mense scolastiche combinati con la ginnastica artistica diventano un cioccolatino. Resta da capire se sei tu a scopare l’esistenza. O il contrario.
Taranto- Roma è un biglietto di andata, senza specificare ritorni. Nascondersi tra le tende coi tiramisù, un tentativo.
Nessuna vergogna, quindi. “The time has come today“. E’ giunto il momento, oggi. Gli LCD Soundsystem sono una sentenza.
Kira, invece, è un alter ego. Bella, ignorante e spaccona. La paura dello specchio appena sussurrata. “See, the bitch don’t know he’s a bitch”. Le canzoni di sottofondo Sergio Leone le incollava agli interpreti. La Smutniak (Nastro d’argento per la migliore attrice non protagonista) somiglia a un gatto. Non si sporca nemmeno quando rovista nei rifiuti. “Tu mi resisteresti?”
Il sottobosco di (s)comparse, certamente no. Sopra chi la adagi la maschera? Nessuno sfigura. Ricky Memphis, Ugo Pagliai, Roberto De Francesco, Anna Bonaiuto, Giovanni Esposito. Te li aspetti ma stupiscono uguale. Certo, Bentivoglio ruba l’occhio. Quel politico lì mica era così fico da umiliare Panatta prima di rompersi il menisco?
Del resto i film vanno immaginati. Battistoni o le camicie con gli elefantini? Ai carabinieri lasci i sussulti d’orgoglio o le mutandine sexy? “La gente viene a sapere le cose e si adombra”. Magari s’accorge delle promesse non mantenute.
Si sa, “la gioventù è un attimo”. Le commedie scollacciate degli anni ’70 hanno tracciato la linea. I materassi, gli imitatori del Bagaglino, Forum su Rete 4, gli spogliarelli di “Colpo Grosso”, sono un Molok. Incarnano una dimensione privata.
Il passo dalla monnezza al cloro che copre i miasmi è un salto dal ponte ai Fori Imperiali. La puzza non la senti. Pure se ti finisce sotto le scarpe. Nella merda ci sei già fino al collo.
I pronomi, invece, arrivano quando i nomi si consumano. Le parole perdono importanza. Morena, Certosa. I numeri, le statistiche. Il 30% degli italiani. I senatori. I calciatori. I magistrati. Le farfalline.
Gli ultimi decenni dello stivale hanno rappresentato il set ideale dei fratelli Vanzina peggiori. Il cafonal, la bandana, “Papi”. La tv generalista, i cervelli de(format)i dei poveri cristi, Virginia San Just, Noemi, Ruby, “Porta a Porta”.
“Meno male che Silvio c’è”. E “i suoi modini gentili, che piacerebbero a un organizzatore di festini” anticipò Camilla Cederna. (3)
A raccontarlo sembra fantascienza. Peggio dell’asciugamano sul viso di “Dio” che parla come Darth Vader. Meno male che c’è Augusto Pallotta, piuttosto. “Lui” conosce “il copione della vita”. Canta persino Nino D’Angelo in ascensore.
“Congo Diana” sembra uscito da “Il caimano” di Moretti. Lo puoi pensare se l’hai visto da vicino. Se ne facevi parte. Se t’hanno impalato “contro l’intellettualismo che predica assurdità”. (4) Dario Cantarelli sotto traccia è la coscienza. Una staffetta freudiana. Altro che i templi di Angkor e le teorie antroposofiche.
La (grande) bellezza sta nei ricordi. Quelli si. La ragazza diceva: “sono innamorata di te”. Faceva sul serio. Citare Dino Buzzati, come a Gervaso nel 1977, quando ti chiedeva se avessi bruciato le tappe, ha perso completamente valore. (5)
“E’ tutto così patetico, Presidente.” L’allegria a vent’anni è il desiderio di quel giovane nella stanzetta.
Il rischio di morire prima di vivere, appartiene a molti. Accorgersi del proprio fantasma evitando di sentirsi stupidi, a pochi. Finita una festa, la malinconia si fa ferita aperta. Bisogna alzarsi dal tavolo. In anticipo sulla miseria.“Nessuna cena dura fino alle tre di notte”.
Ora, da qualche parte, si leggerà che il regista ci è andato morbido. Chissà quanti avrebbero avuto il coraggio di metterle tutte in un monologo di una moglie delusa le cose come stanno.
Puoi sprecare Marias e Saramago. Violentare “Malafemmena” o “Cicerenella”. Scegliere tra New York e Casoria. Sopravvivere a Craxi o a Paola Borboni. La paura di morire non è un’esclusiva dei vecchi. Le gambe tremano a tutti.
Tamara (Euridice Axen, la figlia di Adalberto Maria Merli: buon sangue non mente) è una donna rassegnata nello sguardo. Si sente scema. Veronica (Elena Sofia Ricci, Nastro d’argento per la miglior attrice protagonista, ce n’è voluto per una parte degna del proprio talento) nemmeno ci crede più. Stella (Alice Pagani, una sorpresa la sua inquietudine) è consapevole che la felicità è un’aspirazione.
“I nomi collettivi servono a far confusione. «Popolo, pubblico…». Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi fossero gli altri.”
Scrisse così Ennio Flaiano. Intellettuale di sconfinato spessore, oggi nemmeno ricordato nelle scuole. Lo fece per un Paese uscito dalla guerra e pronto a immergersi nel famigerato “Boom economico”. Sull’Espresso (col “prestito” di Devoto) concluse che in futuro l’Italia non sarebbe stata fatta dai governi. Ma dalla televisione.
La lungimiranza. Senza memoria assume i contorni sdruciti di un rimpianto. Non lo attenui con pizza e champagne. “Rivogliamo Gesù Cristo”, allora. O almeno provare il gelato di Michele.
La fotografia di Luca Bigazzi, la sceneggiatura di Umberto Contarello (premiata col “Nastro” pure lei, e siamo a 4), la recitazione di Toni Servillo. Potete pensarla come credete. “Loro” fra svariati decenni saranno ricordati assieme a chi li ha diretti. Come Bertolucci e Storaro. Fellini con Pinelli e Mastroianni. Antonioni e Di Palma.
La pacata attesa del pubblico in sala, mentre scorrono i titoli di coda sulle nostre macerie, è un tributo composto. Un barlume di curiosità e educazione perduta. Il rimuginio nel silenzio che ogni tanto ancora ci attraversa.
“Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale.
Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte”. (6)
© Gianni Fiorito photo
(3) “Serve una città? Chiama il Berlusconi” (L’Espresso, 10 aprile 1977) di Camilla Cederna
(5) “Il dito nell’occhio” (Rusconi, 1978) – Roberto Gervaso
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