Troisi Poeta Massimo

by

“E pe mme resta sulo addore,
terra c’ammesca ‘a vita e se ne va”

A  

veva ragione Anna Pavignano.“Quello che ho vissuto con lui si è trasformato in patrimonio genetico”(1)

Forse, vale anche per noi tutti. Gli spettatori.

Chi ha vissuto e conosciuto Troisi sul serio (nella vita, nel privato), lo sa già.  Un artista così ha avuto e avrà un pubblico senza tempo.

Che da venticinque anni non smette di amarlo. Anzi. Lo ha fatto diventare ancora più suo. Parte integrante del proprio quotidiano.

Per queste persone la passata di pomodoro senza semi, la porta del bagno chiusa a chiave, le bomboniere per un matrimonio, gli amici che si sono lasciati,  la sincerità, il Napoli che perde in casa col Cesena, i treni in orario, i pescatori del Borgo Marinari,

i contadini al mercato nei problemi di matematica, SavonarolaMontaigne Cooper, la parola “zia”, Massimiliano e Enea, il vezzeggiativo di Roberto, la tv a colori da regalare alla mamma, richiamano inevitabilmente un mondo intimo.

Che non c’è più. Che ci sarà sempre.

Nemmeno parliamo, poi, di discutere circa il concetto di miracoli, annunciazioni angeliche, e parabole. Tipo quella dei trenta denari. Verrebbe loro da (sor)ridere in chiesa.

Due settimane fa è partita una mostra stupenda. Si intitola “Troisi Poeta Massimo”. Al Teatro dei Dioscuri di Roma. Completamente gratuita.

Racconta un attore. Regista e autore di se stesso. La dobbiamo alla sobria generosità dell’Archivio Storico Istituto Luce Cinecittà, rappresentato dalla passione di Gabriella Macchiarulo. E ai curatori Marco Dionisi e Nevio De Pascalis. Anima e essenza del progetto.

Al primo devo pure l’onore esagerato di rendermi infinitesima parte di questa meraviglia. Grazie a qualche consiglio (che manco gli serviva) sulla lingua partenopea e a una mezza idea fortunata. Avergli fatto da ponte, ad esempio, con l’amico Sergio Siano de Il Mattino, per la foto di Massimo con Maradona, mi riempie di orgoglio.

Ma la verità è che questa rassegna non soltanto fotografica prescinde dai crediti. E’ perfetta. C’è sentimento. Si avverte forte appena entri. Il mosaico che incastra immagini artistiche (sovente inedite) a frammenti di vita, avvolge, sorprende, diverte. Lo vedi dai volti meravigliati e compiaciuti dei visitatori.

La tessera delle Ferrovie dello Stato (mica uno chiama la Befana scema, così) con l’indirizzo a via Cavalli di Bronzo 31, il giradischi col vinile di “Sotto ‘o sole”, il libro di Skarmeta integrato dagli appunti scritti sopra a matita, fanno da macchina del tempo (con tanto di carta da parati) persino per le persone più distratte.

La lettera di Paolo Sorrentino (che precisa di avere ventuno anni, mentre al Vomero studia Economia e Commercio), ci fa sentire meno ingenui. Francesca Neri en déshabillé che sorride, Jo Champa, con finger waves e cappellino, tornata bimba davanti al gelato, rendono il clima che nessun backstage al mondo potrebbe.

 
Gli scatti di scena di Mario Tursi e Angelo Pennoni, le foto “di posa” di Pino Settanni (addirittura staccabili in qualche caso), le poesie e i video, nobilitano l’insieme.

I contributi sugli schermi, infine, distribuiscono le testimonianze di Stefano Veneruso, Enzo De Caro, Massimo Wertmuller (che accenna alla “grazia”  di chi nasce all’ombra del Vesuvio), Massimo BonettiRenato Scarpa, Gaetano Daniele.

Con l’accento romano delicato e strascicato assieme, Marco, ai giornalisti che lo chiamano di continuo al telefono, dice una verità essenziale: “non diventa poeta, vive poeticamente”.

Del resto quella Anna di cui sopra lo ha definito “l’intellettuale che non è, o che non vuole essere ma è”. (1)

Devo ammetterlo. Che soddisfazione aver vissuto almeno un brandello di contemporaneità di questo immenso artista. Non lo baratterei nemmeno per tornare più giovane. Giuro.

I santini, l’elogio del necrologio, le commemorazioni a orologeria, le lascio volentieri al tempo greve (e social) che stiamo subendo. Pure quando non vogliamo.

A Massimo sarò grato finché campo per la napoletanità discreta, nuova, antica, tenera, senza compromessi. Con la quale m’ha fatto crescere senza prendermi sul serio. Mai.

Basterebbe la scena di “Ricomincio da tre” mentre “litiga” sommessamente con Marta per sostituire qualsiasi simposio inerente alla violenza sulle donne. Per spiegare quanto sia sottile la fesseria che dista tra l’essere uomo e farlo sul serio.

Quel ragazzo che si firmava Pin8, il suo alter ego, quello del pezzo citato all’inizio di queste righe che sto scrivendo (preso da un lp con copertina da urlo di Cesare Monti), in questa giornata di primavera che non sboccia mai, canterebbe: “alluccammo cca passa vierno, passa vierno senza parlà, pe chi è gghiuto sempe fujenne, primma o doppo s’adda ‘ncuntrà”. (2) (3)

Troisi equivale a Eduardo e Totò. Discernere sulle proporzioni sarebbe inutile. Il dovere di tramandarlo, piuttosto, resta a noialtri. Con gli occhi, con le parole. Con un incontro.

Visitare questa mostra, al di là del piacere, è necessario. Dura fino al 30 Giugno. Facciamola durare col cuore in eterno.

La memoria è l’unico modo per dare un senso a ciò che siamo.

Özpetek che in “Scusate il ritardo” esordiva con l’aiuto-regia, una volta ha concluso una sua storia così:

“Ma poi all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei, ti riconosco nelle mie parole. Tutti quelli che se ne vanno, ti lasciano sempre addosso un po’ di sé. È questo il segreto della memoria? Se è così allora mi sento più sicura, perché so che non sarò mai sola”. (4) 

 

(1) “Da domani mi alzo tardi” (2007) – Anna Pavignano

(2) “Pino Daniele, così timido e riservato, vi racconto il genio in bianco e nero” di Mario Basile (13/01/2015) La Repubblica

(4) “La finestra di fronte” (2003) – Ferzan Özpetek

 

© Miriam Di Domenico/That’s Core photo

 

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