Mia madre

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are un preambolo per ciò che scrivi, è più difficile dello scrivere stesso. Meglio che vada al punto: questo è uno spazio dove proverò (sperando di non annoiare qualcuno) a parlare di cinema e di cultura in senso lato.

L’accezione in senso ampio, allude al resto degli interessi che mi tengono vivo e mi danno brivido per campare; i libri, i dischi, mangiare, vedere nuovi posti da fotografare con gli occhi e non soltanto. E, ultimo ma non ultimo, il calcio (di Soriano e Galeano, niente bar dello sport). Ne ho citati cinque o sei, che come i sensi potrebbero essere molti di più, perché in fondo la verità è che mi piace la vita, questo è quanto.

Lo stralcio che trovate qualche riga sotto, è l’ultimo pezzo che ho fatto per la mia prima pubblicazione: il dizionario cinematografico “Un Anno di Cinema” che uscirà tra qualche settimana, edito dalla casa editrice Classi, che farà la sua presentazione a Parigi durante la Fête de l’Humanité che si terrà dall’11 al 13 settembre.

E’ anche la prima recensione di questo blog.


Mia madre
(di Nanni Moretti, Ita/Fra 2015)

***

Tutti coloro che han trovato brutto questo film (e non parlo dei detrattori consueti del regista), hanno la mia comprensione: bisognava capirlo. E quando scrivo capirlo, non metto in dubbio la cognizione di alcuno spettatore, semmai la pazienza, l’attenzione.

Marco Travaglio, in un articolo molto intenso sul giornale da lui diretto °, ha osservato che questo dell’autore romano, è il suo film più politico, perché politica è occuparsi della vita, della morte, della malattia, della sofferenza, degli ospedali, delle fabbriche, delle cariche della polizia, dei ragazzi a scuola e delle donne. E’ portare da mangiare la pasta corta nella scatola di plastica alla madre malata in corsia, perché la pasta lunga della clinica diventa una colla”. Niente tagliolini, dunque.

Forse, e scrivo forse, è arrivato il momento di dire a tutti gli orfani di “Ecce Bombo”, che Nanni Moretti “lasciando” Michele Apicella, è riuscito con le opere di questi ultimi vent’anni, a interpretare il regista ma anche a stargli accanto (lo so, sto parafrasandolo).

Se l’era ripromesso su una vespa, a spasso per il quartiere Africano a Roma, abbandonando all’aria i ritagli di giornale accumulati che lo facevano arrabbiare. E se qualcuno più distratto non se ne fosse davvero accorto, è diventato più essenziale. Come dovremmo fare tutti del resto, quando il tempo ci passa addosso.

Il pudore lo ha portato a “scansarsi” pian piano dalle storie (Dino Risi se fosse ancora qui, non potrebbe negarlo), ma non per questo a defilarsi da sè stesso, dalla propria visione del mondo. Il compito del cinema, le conferenze stampa, l’idiosincrasia per i capricci e per le frasi fatte, sono sempre lì. Temi rimarcati in maniera sorniona, ma anche più lucida probabilmente.

Quando la bravissima Margherita Buy (un Nastro d’argento e un David di Donatello come miglior attrice protagonista), alter ego di chi l’ha messa al centro di questo racconto fidando sul suo rigore interpretativo, dice: “La retorica, mi da fastidio la retorica, mi danno fastidio quelle frasi, non sono vere e non servono a nessuno” grida (sottovoce) anche per noi spettatori che mal sopportiamo gli eccessi di chi vuole fare l’italiano di maniera. Il suo fastidio, l’idiosincrasia verso certi atteggiamenti, è anche il nostro imbarazzo.

Così, quando John Turturro smetterà di gigioneggiare (richiamando deliziosamente Valentina Cortese in “Effetto notte”), si potrà elaborare che dietro la fine di qualcosa (anche di una vita, purtroppo o per fortuna), c’è un futuro. Lo suggerisce l’ultima, dolorosa, scena cinematografica.

La grazia della sottrazione di bertolucciana memoria (“Assenza, più acuta presenza”, richiamata sempre sul Fatto da Ricky Farina°° , aiuterà a mettere a posto la libreria, gli oggetti di chi se ne è andato. Quando muore una persona cara, muore anche qualcosa che è in te, specialmente quando sarai costretto a frugare nel suo armadio, nei cassetti, e dovrai dare una collocazione a quel mondo che pur conoscendo nel profondo, sai non essere tuo.

Ma “rompere almeno un proprio schema, uno su duecento”, diventerà necessario, indispensabile. Almeno quanto farlo prima che sia troppo tardi, che i vezzi prevalgano sulla consistenza, che chi ti sta accanto rischi di non capire la tua essenza, subendo (persino adorandola al contempo) la tua presenza.

Il latino, il liceo classico, un tipo di famiglia borghese che va scomparendo in un paese che scomparso lo è già, resteranno un personale tesoro dal quale attingere senza nemmeno spiegarselo quando servirà (ricordare il dativo di possesso basterà, senza per forza sapere come). Ma non saranno più la sostanza.

Per riflettere, usciti dal cinema, basteranno le delicate note di “Baby’s coming back to me”. Le canta Jarvis Cocker, il tipo un po’ matto dei Pulp. Sarebbero piaciute pure a Pasolini, il poeta che dopo “Caro diario” è diventato un amico di famiglia.

Quanta dignità impressa sulla pelle quando sussurrava: “piange ciò che muta, anche per farsi migliore”.

 

 

° Nanni Moretti: nel nome della madre – Marco Travaglio

°° Mia madre’ di Nanni Moretti, un ‘piccolo’ film – Ricky Farina

 

 

 

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