Amici miei

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“Ma poi, è proprio obbligatorio essere qualcuno?”

Amici miei
(di Mario Monicelli, Ita 1975)
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C

hiede sornione, ma pure sconsolato, il conte Mascetti, nel finale triste e divertente assieme, di questo film.

Chissà, forse bisognerebbe domandarselo anche nella vita reale, una volta terminati i titoli di coda. Perché i protagonisti di questa storia, ambientata a Firenze, a metà degli anni settanta e a metà delle loro vite, hanno le idee molto chiare sull’argomento: hanno detto no al denaro, all’amore e al cielo, come il suonatore felice di Edgar Lee Masters.

Essere “zingari”, vuol dire scavalcare il protocollo, la formalità, l’esistenza preconfezionata che proprio da quegli anni difficili in poi, comincia ad affossare la mente, il corpo stesso. Non appena passa la giovinezza, con l’omologazione del cartellino da timbrare.

Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi, e infine Sassaroli. L’Italia di provincia, che si chiamava per cognome come a scuola. Quella che quasi, come dice il giornalista del gruppo, ti faceva scordare il tuo nome di battesimo. Sarebbe potuta benissimo essere l’Italia di Beppe Viola (il Perozzi è un suo naturale alter ego) e di Jannacci. Così come sarebbe potuta essere l’Italia di Piero Ciampi.

Oppure di Pietro Germi, che ne scrisse il soggetto ma che non potè dirigerlo (morì, guarda il destino, il primo giorno delle riprese già affidate a Monicelli).

Speculari al regista scomparso, tre firme di ferro: Benvenuti, De Bernardi, Pinelli (quando la sceneggiatura era un mestiere). I primi due toscani non a caso (la storia era originariamente ambientata a Bologna) come il regista subentrato.

Film di Germi, regia di Monicelli, dunque. E successo inaspettato: 3 miliardi di lire, record della stagione (gli americani superati con “Lo Squalo” vennero qui a studiare il “fenomeno”), 2 David di Donatello (a Tognazzi e Monicelli), 3 Nastri d’Argento.

Tutto qui? No. Fu la prima commedia italiana senza un lieto fine. Anzi di più, con un finale tragico. Eppure, a capirlo davvero, impari a campare.

Nulla va preso sul serio, è l’unico modo per esorcizzare la morte, ma soprattutto la vita. E poco importa se qualcuno coglie un po’ di misoginia, di misantropia sparsa. Per sopravvivere tutto è lecito. Per evadere da un’esistenza sempre uguale tutto è consentito. Previo chiedersi “se l’imbecille sei tu, che la vita la pigli tutta come un gioco o gli altri che la pigliano come una condanna ai lavori forzati.”.

Il resto, gli schiaffi alla stazione di Santa Maria Novella, le supercazzole, le governanti tedesche in uniforme, i colpi di fulmine degli architetti, le gobbe posticce per farsi lasciare dall’amante, le battutacce da caserma (“E cosa manca a una donna nella vita novantanove volte su cento?”), le sparatorie finte come da bambini per prendere in giro quello più scemo che si crede furbo, son tutte cose che persino lo spettatore più distratto ha intravisto qualche volta. Chi parla bene le chiama scene cult. Chi parla semplice, le identifica col mito.

E poi a volerlo sottolineare, grandi attori e grandi interpretazioni (doveva esserci pure Mastroianni che rifiutò). Cos’altro aspettarsi da Noiret (doppiato da uno straordinario e mai abbastanza apprezzato Renzo Montagnani, voce narrante), Tognazzi a briglia sciolta (avrebbe potuto recitare anche la lista della spesa), Moschin, Del Prete (il primo recitava Cechov, il secondo cantava Brel) e Adolfo Celi (più Sassaroli di lui, nessuno)?

In fondo la disperazione matta e un po’ vigliacca, la recitiamo tutti i giorni anche pensando a loro. Ci sarà sempre una Titti che ti chiama merdaiolo, un caffè corretto col fernet, un cane da portare a pisciare e qualcuno da prendere per il culo.

Anche il Rigoletto dopo il ’75, non è appartenuto più a Verdi.

 

 

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