Alabama Monroe

by

 

 

“Ci sono storie che quando le racconti si consumano. Altre storie invece, consumano te”.

Alabama Monroe – Una storia d’amore 
(The Broken Circle Breakdown di Felix Van Groeningen, Belgio 2012)
***

P

er presentare questo film, prendo in prestito le parole di un libro di Chuck Palahniuk, l’ho letto qualche tempo fa, colpevolmente in ritardo. Cercavo un concetto inerente, ma anche di sostanza, consistente, che non girasse attorno alle cose.

Perché, come dice uno dei due protagonisti della storia: “la vita non è generosa, non puoi mai amare, non puoi mai affezionarti, la vita non te lo permette, ti strappa tutto dalle mani, tutto”. 

Elise e Didier, un uomo e una donna. Due cartine di tornasole, visioni diverse di quella vita, cosi stigmatizzata. Succede così del resto a molti, se non a tutti. Si chiama mescolanza.

I tatuaggi che scivolano giù per il corpo esile e magro, la barba lunga da orso e il banjo per fare musica country (bluegrass), diventano un tutt’uno. Una storia d’amore (per una volta, il titolo “tradotto” ha ragione di essere), ma anche dannatamente drammatica, lo avvertirebbe lo spettatore più distratto.

Vivere è difficile, è pacifico. Forse bisognerebbe sorridere di più, incazzarsi di meno. Intanto che prendi e dai, i conti tornano sempre poco. Decidi quel che puoi decidere, nessuna certezza.

I (di)segni che puoi fare tu sulla pelle, anche su una veranda o sul cofano dell’auto, se credi, si possono modificare. Quelli che ti fa il tempo, sulla stessa pelle e dentro l’anima che porti a spasso, mai.

In fondo ripercorrere una storia è un ritroso del proprio vissuto. A volte sembra molto, altre ancora niente. E’ un continuo rimuginio, non per forza ha un senso logico, nessuna regola che faccia da paracadute. E qui, grazie ai flashback e ai flashforward (i primi rievocano ciò che è stato, i secondi ciò che sarà), la resa è perfetta.

Felix Van Groningen è stato bravo. Destrutturare una vicenda, con spartana austerità e con passione vivida, non è affatto semplice.

I vari riconoscimenti ricevuti agli European Film Awards, a Palm Springs, al Tribeca, a Berlino, il César come miglior film straniero e qualche nomination di gran prestigio, sono meritati.

Ha usato il suo paese, il Belgio, il cinema non si fa solo in qualche nazione, come piace far credere ai “nostri” distributori: ci sono attori bravissimi in giro per il mondo, Veerle Baetens e Johan Heldenbergh reggono quasi due ore di rara intensità, da soli, con le espressioni, l’alchimia, la mimica interpretativa.

Il resto va visto con gli occhi. Le recensioni (a cominciare da questa) valgono quanto un biglietto del treno, appena scesi dalla carrozza. Conta farsi prendere dalle immagini, “contaminarsi” con le sensazioni, le sfumature. Sempre soggettive, personali.

Magari scopri che gli ebrei suonavano i violini, che le farfalle sono colorate pure sulla schiena, “che in certi posti fa troppo freddo per stare fuori ed è troppo bello per stare dentro”. E puoi chiederti dove vanno gli uccelli quando muoiono, se le croci passano di mamma in mamma, se Bill Monroe è stato meglio di Elvis. Se puoi cambiare nome come fanno gli indiani. Se esiste pure un’America rurale.

Ciò che rimane, sotto sotto, lo conosci già. Le malattie, il dolore, l’amore che può trasformarsi in rancore soprattutto verso se stessi. La sterilità della ragione, i gesti meravigliosi che scoprirai quando è tardi. I bimbi che sono bimbi anche quando stanno male. La paura di piangere e chiedere scusa. Le domande alle quali non devi necessariamente rispondere, quando per capirsi basterebbero i fatti.

In fondo, la malinconica “If I needed you” di Townes Van Zandt, cantata dalla band, non fa che che ribadire la medesima richiesta: “Se io avessi bisogno di te, tu verresti da me? Verresti da me ad alleviare il mio dolore?”

Perché le emozioni non si controllano. E finché non le controlli vuol dire che sei ancora vivo.

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