“Appocundria me scoppia ogne minuto ‘mpietto, pecchè passanno forte, ha scuncecato ‘o lietto. Appocundria ‘e chi è sazio e dice ca è diuno, appocundria ‘e nisciuno.”
Ricomincio da tre
(di Massimo Troisi, Ita 1981)
****
C
’è una malinconia, se sei di Napoli e dintorni, che manco una risata ti leva dalla faccia (forse dall’anima). E’ una condizione esistenziale, niente da spiegare. Quella di chi la mattina si sveglia “azzeccato” come si dice in gergo da queste parti, stordito. Avete presente un gatto che non vuole carezze da poco sveglio? Ecco.La canzone di Pino Daniele (autore di tutta la colonna sonora) citata a capoverso, l’ho messa lì apposta. E’ stata scritta per un capolavoro, “Nero a metà” del 1980, realizzato a ridosso proprio di questo film, e mi piace pensare, che un collante tra i due progetti ci sia e ci stia, insieme agli inediti che ho scoperto l’anno scorso nella riedizione del disco in questione. °
Massimo Troisi, con questa prima opera, girata in soli sei mesi con la miseria di 450 milioni di lire (12 miliardi e settecento milioni ricavati, primo incasso al box office italiano di quell’anno, 2 David di Donatello, 4 Nastri d’argento, 600 giorni di programmazione ininterrotta, stracciando la concorrenza di “Star Wars – L’impero colpisce ancora”, “Shining” e “Flash Gordon”), entra nella testa, nel cuore dello spettatore, delle persone. Diventa insomma, uno di famiglia, chiamarlo comico suona riduttivo.
E pensare che Fulvio Lucisano, il produttore con Mauro Berardi, temeva non lo capisse (e vedesse) nessuno fuori dalla Campania. Dovette garantire di tasca propria a molte sale di Milano, ad esempio, l’incasso normale di cinque settimane, anche se non fosse stato staccato un solo biglietto d’ingresso. L’unica condizione che pose all’esordiente regista, fu quella di fargli ripetere le battute (idea sua). “In questo modo, se non le capivi la prima volta, le capivi la seconda, come nella famosa scena col vaso”. °°
“Ricomincio da tre”, ad essere sinceri, ha molti difetti e lacune narrative. Inevitabili per un ragazzo di 28 anni, che riteneva di non essere neppure all’altezza di una regia, condotta poi da autodidatta. Servendosi appena di un direttore della fotografia, un vice di sostanza (Angelucci, già aiuto di Petri e Pasolini) e un montatore.
Però è epocale: con tutto il rispetto per i cultori del genere, non è l’elogio alla macchietta, che quasi nello stesso periodo, con fare ammiccante, De Crescenzo riporterà (simpaticamente) in “Così parlò Bellavista”.
Qui non c’è oleografia, c’è essenzialità. Siamo dalle parti di Eduardo, seguendo un tentativo onesto di scardinare gli stereotipi gravanti sulla cultura partenopea. Il solco è quello di Annibale Ruccello, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, James Senese, e di altri artisti di quel fertile momento, volto a un necessario rinnovamento raggiunto in modo filologico, atto a restituire rispetto a una città che non merita caricature.
Città che non si difende la domenica allo stadio, semmai ogni giorno, con l’orgoglio dei comportamenti che non strizzano l’occhio a luoghi comuni. Nessun cliché, nessuno stereotipo, solo napoletanità asciutta, verace, dignitosa. In questa storia nessuno gioca a fare il napoletano, come purtroppo ancora adesso, tanti attori (bravi, meno bravi) fanno in maniera stucchevole.
La scelta di alcuni protagonisti del cast, del resto, la dice lunga: Lino Troisi, il papà che precisa il nuovo indirizzo alla Madonna (“via Cavalli di Bronzo 31, comme si vuje vulisseve prendere l’autostrada…”), la bravissima Marina Pagano (donna di teatro) a fare la zia (o meglio, la “ZIA”), e tutti i personaggi di contorno, hanno una recitazione pulita, sincera. Recitano in vernacolo stretto, non c’è manierismo alcuno (stona appena Deddi Savagnone, la mamma, circoscritta non caso a poche battute; romana e doppiatrice di professione, non regge e sarà infatti “sostituita” da Olimpia Di Maio, nel successivo “Scusate il ritardo”, più mirato in tal senso).
In fondo, se sei napoletano nei primi anni ’80, dove di moderno dalle tue parti ci trovi solo le macerie del terremoto appena passato (pure una reggia del Miglio d’Oro come Villa Vannucchi, si presta bene a fare la casa di un terremotato per le sequenze iniziali), il tuo linguaggio non può restare quello dei film di Totò (che il dialetto manco lo parlava) o di tutta la commedia all’italiana che lo sviliva facendolo scimmiottare a mostri sacri come Mastroianni (quando andava bene).
Se sei napoletano, e pure vesuviano (che è un altro fatto ancora), sei probabilmente nato in un comune che il vulcano lo tiene sotto gli occhi tutti i giorni (San Giorgio a Cremano dove sei nato, vale quanto Torre del Greco che da adolescente, ti vede entrare all’istituto tecnico con poca voglia). La tua lingua è lava che s’è data un freno, dorme, ma scotta uguale. E’ nuova, smozzicata, nervosa, indolente, onomatopeica, un po’ di italiano infilato nel mezzo di parole a volte solo accennate.
L’hai detto persino in un’intervista: “E’ stata come un’ostinazione; ma non tanto a usarlo quanto a non volerne uscire. Perché il napoletano io l’ho usato allora e lo uso adesso in modo normale, non spettacolare.” °°°
Così, con la libertà che ti sei dato, prosegui sfacciato e timido. Hai pudore e voglia di stare al centro dell’attenzione al tempo stesso. Concedendoti il lusso delle parolacce senza risultare volgare (anzi in bocca a te, diventano cult: “a nu certo punto, pure ‘o presentatore, s’è fermato, no scusate, andate a vedere chi è stu curnuto…” – “ma vafangul tu e mammina!”). Di dissacrare la religione (non se ne scende proprio l’ipocrisia ecclesiale per chi ha rischiato di morire fin da piccolo) senza essere blasfemo. Di essere romantico e impacciato senza cadere nel ridicolo, nel melenso.
Ci vuole una bella testa a far passare per scocciante San Francesco (la migrazione in fondo è colpa sua) giustificando Giuda (“s’ha visto ‘e trenta denari mmane…”). Il giro del palazzo, a fingere di incrociare la ragazza che ti piace in mezzo San Giovanni a Firenze, che neanche t’accorgi del Battistero sullo sfondo, diventa tenerezza priva di filtro. Pochi se la possono permettere, e a te l’amore dev’essere piaciuto assai.
Allora restano le sensazioni di chi ti recita a memoria, nonostante siano passati quasi 35 anni. Con quel taglio di capelli arruffato che portavano in tanti, pure il mio calciatore preferito. Gli aneddoti di Lello Arena che sul set faceva il caffè, dopo che l’avevi mandato a cercare per le musiche uno di talento come Edoardo Bennato. Salvo “ripiegare” su un altro, altrettanto dannatamente in gamba, conosciuto meglio davanti a una pizza, a Torino, dopo una puntata di un programma tv.
Rimane la sensibilità di chi ha fatto sociologia, ha svecchiato un panorama, rappresentando se stesso, scherzando sulla vita, che se non la esorcizzi fa molto male.
Fiorenza Marchegiani (una Marta straordinariamente figlia di puttana, sfruttata niente, colpevolmente dal mondo cinematografico), Marco Messeri, e altre belle figure come Laura Nucci (la donna fatale di Blasetti, altro che nonnina), completano un quadro che diventa immaginario (quello collettivo lo lasciamo ai fessi che dimenticano):
…chi viene dal sud può solo emigrare, la porta del bagno va chiusa a chiave per fare pipì, gli americani si pigliano tutto, “la rovina dei giovani è cominciata coi capelloni”, il vinile sul piatto, i motorini nei portoni, Cooper e Montaigne citati a sproposito, la gelosia allo specchio, Lello Sodano, il femminismo di ritorno, “voi donne siete più”, i miracoli a due marce, “prima di tutto mai più di cinque”, tutti vogliamo essere Alain Delon, le stanze d’albergo a settemila lire,“Ma-ssi-mi-lia-no viene scostumato”, la guerra nel sonno, “e le casseforti e le cassate e le gazzose e le casse dello champagne e le casse dammorto…”
Sembra una canzone di Rino Gaetano, un altro di quell’epoca che c’ha lasciato troppo presto. E invece è il regalo di chi è stato “troppo indolente per lasciar vincere la risata” (questa l’ha detta Morandini, lo ammetto). Di chi ha lasciato un’eredità a tutti quelli che da Napoli se ne scapperebbero come te, dopo il matrimonio horror di tua sorella, e invece rimangono perché qualcosa di bello da conservare, li trattiene.
A me, che t’ho rivisto adesso in questo cinema di provincia, viene un brivido giù per la schiena. Mi sento stupido ma anche felice.
° Nero a metà – Special Extended Edition
3 Responses
Emils
Novembre 30, 2015Incantevole
francescodellacalce
Novembre 30, 2015Grazie, dico sul serio.
Emils
Dicembre 1, 2015e io pure