“Il cinema non è per un’élite, ma per le masse. Parlare ad un’élite di intellettuali è come non parlare a nessuno.”
“N
on credo si possa fare una rivoluzione col cinema. Io credo in un processo dialettico che debba cominciare tra le grandi masse, attraverso i film e ogni altro mezzo possibile”.Queste parole costituiscono la mia visione della cultura. Sono di Elio Petri. Regista, sceneggiatore, giornalista, critico cinematografico. Premio Oscar per il miglior film straniero nel 1971. Amico di Leonardo Sciascia e di due mostri (davvero) sacri come Gian Maria Volontè e Marcello Mastroianni, da lui più volte diretti. Un intellettuale di sostanza.
La citazione, dunque, non l’ho inserita in questa premessa perchè è bella. La sento vera.
Per chi ha un’estrazione popolare come la mia, è un mantra. Non avessi avuto accesso all’arte in senso lato, oggi tutto avrebbe meno senso. Sarebbe diverso. Non sarei la persona che sono. Non apprezzerei la sensibilità delle persone che amo.
L’anno che sta finendo è stato importante. Ho potuto parlare di cinema indipendente all’Università di Salerno. Il libro che Classi mi ha appena pubblicato, ho deciso di non portarlo.
Ai giovani ragazzi venuti ad ascoltarmi, somiglianti a tutto ciò che sono stato, ho preferito consigliare di non farsi fregare da quelli della mia età. Di non credere agli schemi. Perchè non esiste un apprendistato della disgrazia.
L’indipendenza è un concetto serio. In tempi grami come i nostri, il tempo assume maggior valore. Nessuno può comprarlo per una miseria. Utilizzarlo creando, evitando compromessi mal ripagati, è una dignitosa possibilità.
Giusy Parisi, una cara amica che insegna al liceo artistico della stessa città, il Sabatini Menna, vuole che vada a fare due chiacchiere con la sua classe. Hanno intitolato l’aula magna a Giancarlo Siani. Il messaggio sul telefono è stato eloquente. L’immagine di un pc con la recensione di Fortapasc scritta l’autunno scorso, accompagnata da una frase: “I miei ragazzi di audiovisivo multimediale leggono te”. Mi ha emozionato.
Le formalità, i biglietti da visita mi hanno sempre imbarazzato. Nessun romanzo nei cassetti delle case in cui ho vissuto. Mai. Prendermi sul serio mi costa tanto.
Il tentativo di fare qualcosa per chi è migliore di me in potenza, rende tutto più naturale. I fatti, il concreto, ti fanno andare a dormire contento. Senza isteria.
Infatti la scrittura sta venendo incontro da sola. Se non è destino, è fortuna. Se non è fortuna, è destino.
Così è stato pure per la radio. La devo all’amico più pazzo del liceo, Louisiano. Mi voleva bene e mi sfruculiava allo stesso momento. Non l’ho ringraziato abbastanza.
Un giorno a Torre Annunziata, casa mia, m’ha portato in una stazione ascoltata solo da quelli del palazzo. Dodici mesi dopo, in una che la sentiva tutta la città. Ci pagavano coi dischi. A noi adolescenti, bastava così.
Un demo in una cassettina e mi son ritrovato in alcune emittenti cosiddette commerciali. Pagavano (bene) un tot all’ora.
Eppure, col rispetto per chi manda musica leggera senza pretese, spaccando il tempo tra una canzone, un quattro quarti e l’oroscopo del giorno, quel tipo di comunicazione non era, e non è mio. E io come speaker valevo, e valgo poco. Consapevole di questo mi fermai.
Poi, una vita in mezzo e arrivo a un paio d’anni fa. Radio Vostok, taglio politico e pochi fronzoli. L’hanno creata due ragazzi in gamba, Alfredo e Daniele Senatore. Anche a loro devo qualcosa. E’ collegata al circuito di Radio Onda d’Urto di Brescia.
Mi hanno permesso di intervistare persone che non immaginavo in carne e ossa. Penso a Renato Curcio e Claudia Pinelli. Lei sul libro della madre mi ha scritto testuale: “con stima e ammirazione”. Persino una dedica ti insegna a vivere se traspare umiltà e temperamento assieme. La porto nel cuore.
La voglia di raccontare a voce le cose ha fatto il resto. Confrontandosi con generazioni diverse. Tante facce belle. Cito Gengè Ragosa e Francesco Lambiase per tutti gli altri.
Invece Alfonso Tramontano Guerritore lo conoscevo già. Poco e quanto serve. Ci sono persone che stimi a pelle e non ti spieghi il motivo. Fa il giornalista. Scrive poesie, pensieri. Storie belle assai.
E’ strascicato come la voce di Eduardo De Crescenzo dei primi anni ’80. Bisbiglia di militanza poetica. E’ un finto timido. Figlio di puttana dagli occhi troppo chiari per essere furbo. Sembra uscito da un romanzo di Kerouac. Non mi meraviglierei se lo imitasse scrivendo sulla carta da cesso.
Aldo Padovano, il suo collega, è l’amico incasinato e carnale che ci ha fatto acchiappare. I ringraziamenti di questo articolo passano a tre.
Eravamo rimasti che facevamo qualcosa assieme. Fossati direbbe: sono parole che si dicono. Ma sul tavolo avevo delle proposte utili a portare questo blog e le mie recensioni in onda. Una web radio come Radio Polo è capitata al momento giusto. Il podcast è simile allo streaming. E’ il futuro diventato presente.
Ci siamo ritrovati a fare questo programma. Siamo già a sei puntate. Facciamo disperare coi tempi Vincenzo Giaccoli in regia. Ci divertiamo. La diretta va alle 15.00 del sabato. La replica alle dieci di mattina del giorno successivo. Ai pigri lasciamo il comodo podcasting.
Discutiamo di cinema e non solo. La speranza di servire agli altri. Informandoli che è uscito quel disco. Che in sala c’è un film interessante. Che in mezzo alle caterve di carta rilegata, buona per fare da zeppa a un tavolo monco, è uscito un libro da leggere veramente. Vincent Cassel, Sorrentino, i Baustelle, Leonard Cohen. Bob Dylan, Marlon Brando, Jude Law. E’ tutto un pretesto.
Per ricordare quanto un’estate fa mi ha detto Enzo Moscato a Sorrento. Che esistono “librerie piene di non libri, teatri pieni di non teatro”. Che per questo “bisogna lasciare e prendere, non si può mangiare sempre, altrimenti si schiatta”.
Io non sopporto le mie pause. Prendo tempo illudendomi di rispondere meglio. Non è voluto. La mia voce roca mi disturba. Col tempo perdi spavalderia e incoscienza. Capita ai piacioni che non si piacciono.
Allora avevo bisogno di un sotterfugio. L’ho trovato. Mi affido a chi ha più qualità del sottoscritto. Complicità da frontiera empatica. Truffaut sosteneva “la vita fatta di frammenti che non riescono a riunirsi”. E io a quei frammenti voglio dare un valore. Una consistenza. Quasi a prendere un pezzo di cielo con la rete per le farfalle.
Perchè quella stessa vita, a un certo punto dell’esistenza, va presa come viene. Non la forzo. Mi affido a un gioco scapestrato e romantico. Un messaggio in una bottiglia in un’epoca che non aspetta.
Un tentativo non urlato da regalare a entrambe le categorie degli uomini di Cioran.
“Quelli che cercano il senso della vita senza trovarlo e quelli che l’hanno trovato senza cercarlo”.
© Miriam Di Domenico photo http://www.iammia.it