“Sigaretta sor Natà?” – “No grazie, io non fumo!” – “Eh beato lei, cazzarola! Magari me potessi levà pur’io er vizio der fumo. Ma sa com’è no!? Le preoccupazioni… Senta sor Natà, a proposito de preoccupazioni, lei è un pò in ritardo coi pagamenti, no!? – “I pagamenti? Che pagamenti, scusi?” – “Ettore me dai er cric per piacere?”
Q
ueste battute non avrebbero sfigurato nel campione d’incassi della scorsa stagione, “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. Specie se a pronunciarle fosse stato lo “Zingaro” di Luca Marinelli. Fanno parte invece di un “poliziottesco” del 1977, intitolato ”Il cinico, l’infame, il violento”, di Umberto Lenzi.Dialogo recitato con grande spontaneità dal malcapitato Riccardo Garrone e soprattutto dal flemmatico “Cinese”. Interpretato da un Attore cubano. Uno che ha vissuto a Roma i due decenni più esagerati del secolo scorso: gli anni ’60 e i ‘70.
Tomas Milian non lo spieghi facilmente. Nel 1982, nell’ultimo scampolo italiano, si divideva tra “Delitto sull’autostrada” di Bruno Corbucci e “Identificazione di una donna” di Michelangelo Antonioni. Nel primo assumeva (per la nona volta) le sembianze consuete dell’ispettore Giraldi. Con tuta d’ordinanza, barba, cappellino e turpiloquio andante, metteva a repentaglio il matrimonio con la povera Angelina. Per via di Viola Valentino, la Cantante del momento. Nel secondo impersonava (nientemeno che) l’alter ego del Maestro di Ferrara.
Basterebbe questo a spiegare una storia di vita e d’Artista fuori da ogni schema.
Scappare da Cuba dopo aver visto tuo padre Generale ammazzarsi per un ideale, non deve essere semplice. Meno che mai se sei un ragazzino. Si spiega allora che ti rivedi in James Dean, diretto proprio da Elia Kazan che un giorno non lontano ti farà entrare all’Actor’s Studio. Nel mentre Miami e New York. Poi Lee Strasberg e il Metodo Stanislavskij. L’ingaggio nell’agenzia del tuo Mito e un telefilm con la NBC. Fino a Jean Cocteau che vede la tua piece a Broadway e ti porta al Festival dei due Mondi di una piccola città italiana, Spoleto.
Lì fai “Il poeta e la musa” per Zeffirelli. Tanti consensi e diciassette punti di sutura. I colleghi invidiosi durante gli applausi possono essere pericolosi. Le cinquecentomila lire di Bolognini per il primo film della tua carriera tratto da “Alì dagli occhi azzurri” di Pasolini, chiudono il cerchio. Seguirà un settennio legato al Cinema d’Autore per davvero. Non a caso ti mette sotto contratto la Vides di Franco Cristaldi. L’unico produttore intellettuale visto da queste parti.
Diretto da Luchino Visconti, Citto Maselli, Nanni Loy, Lattuada, Zurlini e Florestano Vancini. Al fianco di Mastroianni, Jean-Paul Belmondo, Claudia Cardinale, Romy Schneider, Shelley Winters, Renato Salvatori, Anouk Aimée, Anna Karina e pure Charlton Heston.
Ma non basta. Non ti diverti e non avverti l’attenzione che senti di meritare. Sarà l’accento sudamericano, l’ambizione di un cachet più alto. O semplicemente il mondo sta cambiando e riesci a coglierlo prima degli altri.
Come un calciatore a cui scade il contratto, non rinnovi puntando sulla bella faccia da scugnizzo. Scappi in Spagna, la lingua stavolta torna utile, inventandoti una carriera da cane sciolto.
Sia benedetto Leone che ha sdoganato il Western. Certo, è un nuovo inizio fatto di cose sperimentali. Alcune persino raffazzonate. Ma altre, valgono il salto nel buio. Tipo quando ti trovi di fronte a Gian Maria Volontè (sul set ti chiama “cubano di merda”, ma sono dettagli). O a Lee Van Cleef. Con Cuchillo a influenzare l’immaginario sessantottino.
Esaurita questa vena rivoluzionaria, immergersi nel Genere è un attimo. Intanto il ’68 è finito. Comincia un’epoca ricca di spunti. Un paio di thriller con Pierre Clementi e Barbara Bouchet. “Il Padrino” dei poveri accanto al premio Oscar, Martin Balsam. Non manca nemmeno un episodio pecoreccio con la Fenech nazionale, mentre fai la macchietta.
Nessun problema, era già capitato con la Buccella. Stendendo un lenzuolo pietoso per le imitazioni di Trinità nelle campagne laziali con Mike Bongiorno e ai Ciu Ci Ciao ante litteram in compagnia di Giuliano Gemma e Eli Wallach
Tolto lo sfizio di lavorare per Yvet Boisset, la Cavani e addirittura dire si a Claude Chabrol e no a Garcia Marquez, arrivano i polizieschi. La performance di “Milano odia: la polizia non può sparare” è enorme. Dice che bevevi e ti drogavi. Doveva essere roba buona, però.
Arriva finalmente il 1976. Anno di grazia nel quale scatta la popolarità eterna. Quella che sotto sotto cercavi sul serio. Avresti voluto essere romano veramente, in giro si dice così. Ha ragione Dardano Sacchetti che t’ha cucito addosso Marazzi Sergio detto Er Monnezza. “Hai un carisma che soltanto la Mangano”. Si chiama seduzione. E poco importa la tua fragilità e i compromessi che ne derivano.
Adesso non conta più se alternerai Jill Clayburg a Lilli Carati. Bud Spencer a Bernardo Bertolucci. Diventi un’icona. E tale resterai.
La voce di Ferruccio Amendola, quello che doppia “Serpico” e Al Pacino che t’hanno ispirato Nico Giraldi detto Er Pirata (su soggetto di un altro Amendola, Mario), assieme ai consigli dello stunt Quinto Gambi, fanno il resto. E se Maurizio Merli e Luc Merenda ti stanno sulle palle, loro “buoni” contro “il cattivo”, la gente sarà sempre dalla tua parte. Fedele come Venticello e il brigadiere Gargiulo.
Perchè c’è un momento in cui un uomo non deve spiegazioni. Tranne che a se stesso, ovvio. La popolarità in fondo è essere di tutti e di nessuno. Permettersi l’essai e il trash. Hai presente Carmelo Bene? Ecco. Così ti voglio immaginare adesso. Che canti “Sora Rosa” e “Roma Capoccia”, prima di uscire di scena. L’hai fatto già una volta. Del resto “Venditti è un compositore che nun se batte”. Mi pare che l’hai detto tu.
Ciao Tomas, t’ho voluto bene assai. Neanche immagineresti quanto. Nun me sto a ‘nventà gnente.
“Seduttore, rissaiolo, era solo un Divo” (Il Fatto Quotidiano) Alessandro Ferrucci