“Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è.
Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.” – “Eh la paura però non li fa scappare!” – “No, ma li rende pericolosi.””
I
n un road movie epocale di fine anni ’60, un giovane Jack Nicholson spiega a Dennis Hopper come stanno le cose.Il film in questione, diventato famoso ben presto, è “Easy Rider” del 1969.
In Italia, la consueta fantasia dei distributori nostrani, lo sdoganò come “Libertà e Paura”. Traduzione bruttina quanto efficace. Riuscì (per una volta) a rendere il senso di ciò che il regista voleva probabilmente intendere.
Lo scambio di battute sopra riportato suggerisce abbastanza.
L’America è contraddittoria. Giovane e vecchia. Innovatrice e conservatrice assieme. Immensa. Un coacervo di razze e tradizioni più o meno integrate. Unita nonostante l’eterogeneità di fondo.
Coraggiosa e libera, paurosa e chiusa.
Per capirla, non c’è bisogno neanche di andarci negli Stati Uniti. Puoi amarla o detestarla. Difficilmente ti lascerà indifferente.
Così come il suo cinema. Dirompente, intimista, sarcastico, eccessivo, indipendente. Sempre profondamente americano.
Con la propria identità, che prescinde dallo Stato dei cinquanta e passa in cui trovi ambientata la propria storia.
Poi, c’è Los Angeles, e la California. “Piena di cause significative”, secondo la poetica e l’ironia di Lou Reed. (1)
Lì comincia un altro racconto.
Perché degli angeli, certi posti portano solo il nome. Somigliano ai saliscendi di San Francisco. Caratteristici finché vuoi, a patto tu tenga bene il volante. Altrimenti puoi morirci. In mezzo al traffico e a i cable car sulle rotaie.
Beverly Hills e Hollywood ingannano i turisti in cerca di cartoline. Il confine col Messico è troppo sottile. Da San Diego a Tjiuana bastano venti minuti di macchina.
Terra di cult, insomma. Nasconderlo sarebbe ipocrita.
Lo schermo non a caso trasuda calore. Se ci pensi, persino una discreta tensione.
Sono immaginario da manifesto.
Passando per il Leone d’Oro di Altman, con la MacDowell e la Stowe, fiche come mai. O al surf e le rapine con le maschere dei presidenti di Bodhi e Johnny Utah, nel miglior film della Bigelow. Quello che s’è permesso Anthony Kiedis dei Red Hot e lanciato Keanu Reeves.
Vincent e Jules tra un omicidio e un battibecco sul Big Mac e Parigi, chiudono i ’90 vicini e ormai lontani.
Tanti titoli. Marchio di fabbrica pure per chi non li ha visti e mai li vedrà.
“Bullit”, “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!”, “The Fan – Il mito”, “America oggi”, “Point Break”, “Pulp fiction”.
Ce ne sarebbero infiniti. Le icone servono a portarci ai giorni nostri, spiegano un percorso.
“Le Belve” e la droga di Salma Hayek, Benicio Del Toro, e Oliver Stone, ad esempio. O ancora i casini di Ryan Gosling, stunt dallo stecchino in bocca, in “Drive” del talento danese Nicolas Winding Refn.
L’indagine retrò di Joaquin Phoenix, hippy di ritorno per Paul Thomas Anderson e Thomas Pynchon, con la sigaretta dietro l’orecchio in “Vizio di forma”, forse stempera tutto il sangue e l’adrenalina.
La sensazione selvaggia di un mondo dove l’uomo mantiene una natura ferina, invece, non la lenisce nemmeno la modernità. Anzi.
“She says, hey babe, take a walk on the wild side”. (2)
Quel cantante di prima, si trasferì a New York. L’unico modo di salvarsi, disse.
E l’autore che più di tutti portava il destino nel nome, adesso avrebbe aggiunto: “questa tensione è insopportabile, speriamo che duri”. (3)
(1) Se una sera ruggisce il suono di New York di Matteo Persivale | 28 Agosto 2008 – Corriere della Sera
(2) “Walk on the Wild Side” (1972) – Lou Reed | 24 novembre 1972 – “Transformer”/RCA Records
(3) “The Importance of Being Earnest” (1895) – Oscar Wilde